ABITARE IL SILENZIO: PERCHé MEDITARE?

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Abitare il silenzio: perché meditare?

La ricerca dell’interiorità si presenta come risposta a un appello. Per percepirlo è necessario prestare l’orecchio, non esterno, ma l’orecchio del cuore, che deve essere scoperto e poi infaticabilmente educato per rinforzare la sottigliezza e la qualità d’udito.
[…] L’appello è comparabile a un segnale. Viene da lontano e malgrado ciò è vicinissimo. L’ascolto dato a questo appello inaugura una via di ritorno verso l’origine.

Marie Madeleine Davy

 

Cosa pensi leggendo la parola “meditazione”? È una parola nuova per te o ha già la forma della tua esperienza come un vestito indossato molte volte? Quali immagini ti suscita, quali idee?

Prima di proseguire, se vuoi, se puoi, prova a metterti in ascolto. Prova a frugare dentro, a intercettare tra le tue impressioni un’immagine. Può essere forse il ricordo di una pubblicità: una donna o un uomo bellissimi, vestiti di bianco e seduti immobili, senza pensieri, sotto un cielo terso. Credi sia questo “stare in pace” la meditazione? Oppure può essere un’immagine ideale: un uomo o una donna così intelligenti, capaci di riflessioni filosofiche complesse, di parole difficili, quasi incomprensibili, che calano dall’alto della loro saggezza sentenze sul senso della vita. È questo? Oppure può essere ancora un senso di costrizione a tornare alla mente: stare seduti a lungo in un silenzio soffocante con la netta sensazione che il cuscino sotto i glutei sia in fiamme e che il corpo faccia male dappertutto. È stato così per te l’impatto con questa pratica?

Qualunque cosa sia, credo ci sia un po’ di verità in quello che immagini e che al tempo stesso la meditazione non sia nessuna di queste cose. È una pratica, sì, e come una pratica necessita una tecnica e una disciplina perché possa portare a un apprendimento, ma prima di tutto la meditazione è, a mio avviso, un incontro, forse l’incontro più importante della nostra vita: quello con noi stessi, dove scopriamo, in fondo, che io, questo io che ci portiamo appresso in ogni giorno della nostra vita, è altro.

 

Una via di ritorno

Il primo richiamo alla meditazione è, a volte, quasi una nostalgia: un desiderio di ritorno a una condizione che non sappiamo bene definire se non con un vago riferimento alla pace o alla libertà interiore, a qualcosa che sentiamo mancare nel ritmo vorticoso della nostra quotidianità. È come se una parte di noi sentisse, o meglio ancora sapesse, che c’è dell’altro. Che il nostro essere al mondo non si riduce a una corsa, a un grande giro di giostra tra nascita e morte, ma che racchiude in sé un potenziale, una sorta di realizzazione che non ci chiede di diventare ricchi o famosi o perfetti, ma di vivere al meglio di ciò che già, in qualche modo, sentiamo di essere.

Credo sia in questo richiamo interiore a un potenziale che inizia davvero la nostra ricerca, che sia proprio in risposta a questo segnale che facciamo quel primo passo che ci avvicina a una pratica radicale come la meditazione, perché la prima cosa che sappiamo di essa è che ha a che fare con un cambiamento profondo del nostro modo di essere.

Ci troviamo così a iniziare un percorso, a intraprendere quella che gli orientali definiscono una “via”, con un carico più o meno grande di aspettative. Sono molte, a dire la verità, le “vie” che oggi possiamo incontrare nella nostra ricerca, rimandando a tradizioni diverse come quelle dello yoga e del buddhismo (con tutte le sue sfumature interne) e comprendendo ora pratiche concentrative, ora contemplative, ora speculative e più vicine a un’indagine filosofica. La parola stessa meditazione ha in sé molte declinazioni. In italiano meditare non è lontano da medicare, e in questo c’è forse un richiamo alla cura che rappresenta. Nella tradizione buddhista la pratica della meditazione viene denominata “bhavana”, che significa coltivare, in sanscrito è “smrti”, che significa ricordare, o “dhyana”, che nella topografia di Patanjali e del suo ashtanga yoga rimanda a uno stato di unità della mente. Ma c’è qualcosa che tutte queste vie e queste visioni hanno in comune, ed è come una postura interiore, una richiesta di silenzio e di ascolto profondo.

Ci accorgiamo presto di quanto sia poi difficilissimo abitare il silenzio, non ci siamo più abituati, immersi come siamo in un flusso continuo di scambi e informazioni che ricreano interiormente il paesaggio affollato nel quale siamo immersi nella nostra vita urbana. Stare nel silenzio significa, allora, quasi abitare un luogo selvatico e sconosciuto, a cui dobbiamo riabituarci frequentandolo un poco alla volta, perché in esso ci sentiamo disarmati, esposti, nudi perché privati delle maschere e dei ruoli con cui ci identifichiamo, e per di più costretti a stare in intimità con una delle persone che più ci terrorizzano al mondo: noi stessi.

Eppure, se ci diamo tempo, se abbiamo la pazienza di rimanere in ascolto sufficientemente a lungo, tanto da disarmarci e da lasciar andare tutto quel bagaglio di idee che ci portiamo appresso nel guardare le cose, il nostro sguardo inizia a ripulirsi, a cambiare. Come un liquido denso, scosso a lungo e poi lasciato riposare, iniziamo a schiarirci, a farci davvero presenti.

La sensazione, spesso, è quella di tornare a casa, di sentirci di nuovo abitati, di essere nel nostro corpo, nei nostri panni. Quello che incontriamo non è sempre la quiete che immaginiamo, a volte è più facilmente il caos, un movimento furibondo di pensieri, suggestioni, stimoli. Qualcosa che ci sembra di vedere per la prima volta, ma che, invece, è il sottofondo costante, il rumore bianco, del nostro quotidiano vivere.

Meditare, allora, stare con questa cosa qui che siamo, percorrendo una “via” perché possiamo sempre più a lungo soffermarci in questo silenzio, in questo luogo di noi, somiglia allora a prendersi cura di ciò che consapevolmente o inconsapevolmente ci portiamo dentro e dietro. Significa coltivarci, fare in noi giardino, o meglio ancora orto: osservando il nostro terreno, spietrandolo, pulendolo, lasciando emergere in esso ciò che ci fa stare bene, ciò che ci nutre e che a volte ci sorprende. Perché abbiamo dimenticato quanto siamo vasti, quanto la nostra coscienza possa espandersi fino a toccare i limiti più lontani dell’universo. Abbiamo dimenticato quanto siamo “vuoti” e spaziosi, in fondo, e quante energie e forze originarie ci abitino, quanta bellezza possiamo incarnare oltre lo spavento.

E forse ci è necessario davvero sederci e insegnarci piano piano a stare fermissimi e attenti, per poterlo, ancora e ancora, ricordare.

 

Testo curato da Virginia Farina, insegnante di Raja Yoga: un percorso di yoga e meditazione presso la Scuola di Yoga Centro Natura. Il corso si tiene ogni lunedì dalle ore 20 alle 21:30 insieme a Maria Rapagnetta.