Consigli di lettura. Il bene grande dell’aria: invito alla scoperta della Tenerezza di Chandra Livia Candiani

Al momento stai visualizzando Consigli di lettura. Il bene grande dell’aria: invito alla scoperta della Tenerezza di Chandra Livia Candiani

“[…] che tu possa sentire il bene grande

quell’aria che ci sta sempre intorno

che sempre bada a noi e sa

che mentre ci scuotiamo forte

mentre scartiamo

e sgroppiamo via i pesi

già stiamo facendo dell’infinito

casa”

Chandra Livia Candiani, Tenerezza

a cura di Maria Teresa Abignente, Romena edizioni, 2017

 

Non c’è stagione che ci esponga più dell’estate. Il caldo ci alleggerisce dei vestiti e, insieme, di tutte quelle coperture che, in qualche modo, ci danno protezione durante l’anno.

Il nostro corpo è ora scoperto, la nostra pelle messa a nudo, ed è come se il confine tra noi e il mondo ritornasse ad essere più sottile e al tempo stesso attraversabile.

È la nostra pelle, infatti, il primo luogo di incontro con l’altro, è sulla sua superficie che si imprime il calore del sole, che si inscrive una carezza o un contatto sgradito, che si registra il sollievo per un soffio di vento e si trattiene il brivido per uno sfioramento desiderato.

La nostra pelle è una geografia che ci contiene e ci protegge, e che, al tempo stesso, ci apre, come una soglia da cui possiamo affacciarci al mondo. È lì che portiamo le cicatrici delle nostre battaglie e le morbidezze delle nostre rese, e non è un caso che la poetessa e insegnante di meditazione Chandra Livia Candiani parta proprio dalla sensibilità della nostra pelle per parlarci della tenerezza.

Nel piccolo libro edito per la comunità di Romena nel 2017, e intitolato appunto Tenerezza, Chandra si avvicina a questa qualità del nostro essere iniziando a liberare il campo da tutto ciò che può portare al suo fraintendimento. Tenerezza non significa ingenuità né innocenza, essa non è una caratteristica innata o infantile del nostro stare al mondo, ma una conquista. Spesso diventiamo teneri dopo che la vita ci ha stagionato ben bene, stanato, sbocconcellato, ma anche dopo aver conosciuto il male che facciamo a noi stessi indurendoci. Così già nelle prime righe la poetessa ci mette a nudo, chi di noi non riconosce in sé un dolore grande abbastanza da stanarci, da toglierci dalle nostre zone di comfort? E chi al tempo stesso non ha sentito almeno per un istante che indurci e farci scudo e fortezza finisce per alimentare ancora di più il dolore che proviamo?

Chandra usa una parola molto forte per parlare di chi ha sofferto, una parola che prende in prestito da Irit Amiel, una scrittrice ebrea polacca, che così definisce i sopravvissuti: gli scottati. Vivere con la pelle bruciata significa sopportare non solo un dolore diffuso ma anche una sensibilità estrema che si risveglia ad ogni tocco.

Fortunatamente pochi di noi sono davvero dei “sopravvissuti”, ma sappiamo che la sofferenza è una delle condizioni più originarie del nostro essere umani, e che nessuno di noi può dirsi davvero libero da essa. Ed è proprio dalla consapevolezza di questa condizione radicale che nasce il nostro bisogno di altro, di un cammino che ci accompagni a trasformarla, come, ad esempio, il cammino dello yoga così come Patanjali lo delinea, o quello del Buddha a cui Chandra, pur in strettissimo legame con il cristianesimo, fa riferimento.

Accanto a queste grandi vie, però, Chandra sembra volerci suggerire una via più piccina e al tempo stesso più vicina alla nostra dimensione. Una via della tenerezza, potremmo definirla, che parte dalla nostra pelle per andare in due direzioni: verso il nostro cuore e verso l’infinito.

Proprio la pelle, così distesa e aperta è il punto da cui possiamo partire, perché essa è il primo luogo del sentire, di quella conoscenza delle cose che non ci separa da esse, ma in esse ci comprende. È nel sentire, infatti, in quel sentire a cui lo yoga ci educa con tanta precisione, che possiamo diventare davvero consapevoli del nostro respiro, dei movimenti che si compiono dentro di noi e di quelli che si svolgono intorno attraversandoci.

La tenerezza è, allora, una postura, una modalità del nostro ascolto che non giudica né ordina, ma semplicemente si fa partecipe di ciò che accade.

Ecco, la tenerezza trova misteri dove altri vedono problemi. […] e credo che come tutte le virtù, cioè le forze, sia coltivabile, ma non comandabile. Così Chandra ci invita a scendere in profondità. La tenerezza non è una delle nostre fragilità, ma nel momento in cui la riconosciamo come “virtù”, ovvero come qualcosa di prezioso, può diventare per noi un potere, una forza. E lo yoga ci insegna che ogni forza autentica nasce dal centro di noi stessi solo a condizione che non ci “imponiamo” una forma, e che, come sperimentiamo in asana, creiamo le giuste condizioni perché essa fiorisca. Diventa allora necessario lavorare a dissodare il cuore. Ammorbidirsi fa male, non è una virtù comoda la tenerezza. Quanto tempo ci metti a rendere tenero un terreno?

Con una metafora illuminante Chandra ci mostra il nostro cuore simile a un campo, un luogo dove coltivare significa prendersi cura, con continuità e un pizzico di umiltà, con infinita pazienza, per togliere i sassi ingombranti e le erbacce cresciute nella disattenzione, per scavare e poi ricoprire le zolle così da portare aria e nutrimento al suolo. E non è forse questo il senso più bello e profondo della pratica, il motivo per cui settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno seguiamo un corso di yoga facendolo diventare, a volte, un vero percorso di vita: coltivarci con pazienza per creare in noi un terreno di fioriture?
E più procediamo e più ci accorgiamo che questo cammino non è un cammino che facciamo per noi soltanto. Quanto più diventiamo capaci di morbidezza verso noi stessi tanto più impariamo ad offrirla anche a chi ci circonda. […] la condizione umana non può che farci tenerezza. Una tenerezza urgente, il bisogno di prenderci cura di noi senza piume e senza radici, ma anche di guardarci senza severità.

Questo ci invita a fare Chandra, con il coraggio estremo dei vulnerabili ci chiede di imparare a tremare insieme, di riconoscerci parte proprio partendo dal male che sentiamo tutti, e che pronunciamo non per farne scudo ma per imparare, poco a poco, a diluirlo. Quando sto male è perché mi dimentico di sentire il respiro, il respiro è il soffio della Grande Vita che entra in me, mi anima, mi dice che sono viva. E qui Chandra ci porta, con delicatezza ma anche con decisione, a riconoscere in noi quel desiderio che ci spinge dal profondo a fare dell’infinito la nostra casa, riconoscerci come dice lei piccolissimi, briciolitudine, ma al tempo stesso avendo ben chiaro che anche nel nostro essere briciole la nostra misura esatta è l’infinito.

Ci sono certe sere estive in cui spontaneamente possiamo sentire in noi la vertigine di questa misura.  Magari non ce lo sappiamo dire e non riusciamo bene a capire quale slancio del cuore ci sollevi lo sguardo a cercare le stelle dopo il tramonto o ci porti a inseguire per settimane un orizzonte più ampio di quello che abitiamo durante l’anno. Ma in qualche modo la riconosciamo. E allora questo piccolo libro, così leggero da infilarsi nella tasca dei nostri pantaloni, può essere un buon compagno di cammino e donarci in quei momenti spalancati le parole per pronunciare il bene grande che siamo.

 

 

A cura di Virginia Farina, insegnante di Raja Yoga: un percorso di yoga e meditazione presso la Scuola di Yoga Centro Natura, e curatrice della parte dedicata alla yoga del Blog di Centro Natura.