Il respiro nello yoga.
Dialogo con Marco Passavanti a cura di Virginia Farina per il Centro Natura.
Non può darsi yoga senza una relazione stabile e profonda col respiro, eppure non è per nulla facile avvicinarsi al prāṇāyāma e comprendere quell’equilibrio delicatissimo tra contemplazione e controllo della respirazione. Ne abbiamo parlato con Marco Passavanti, già ricercatore presso l’Università «La Sapienza» di Roma, traduttore e insegnante formatore presso l’AYCO di Roma e in diversi centri italiani, tra cui il nostro, che il prossimo 19 gennaio 2025 terrà per noi un seminario teorico ma soprattutto esperienziale dal titolo “Prāṇāyāmādhyāya. Tre tecniche fondamentali di controllo del respiro secondo la tradizione di Krishnamacharya”. Qui il link alla pagina del sito per tutte le informazioni al riguardo.
Buona lettura!
Virginia: Nello yoga moderno spesso l’aspetto posturale e quello respiratorio vengono considerati separatamente: prima facciamo āsana e poi prāṇāyāma: Ma è poi davvero possibile separare movimento, ascolto e respiro? Quando inizia il prāṇāyāma?
Marco: Lo yoga moderno transnazionale, che nella maggior parte dei casi si presenta come yoga ‘posturale’, mette al centro del lavoro l’esecuzione degli āsana. Contrariamente a quanto avveniva in epoca premoderna, quando oggi si parla di ‘fare yoga’, si fa quasi sempre riferimento all’esecuzione di un certo numero di āsana, e soltanto in misura minore a una serie di tecniche respiratorie o di pratiche meditative. I motivi di questo slittamento sono complessi, ma ai fini del nostro discorso credo sia necessario chiarire un punto fondamentale: una buona pratica di yoga ‘posturale’ non può prescindere da un’osservazione attenta del respiro e da un lavoro di ‘rieducazione’ di esso. Allo stesso modo, chi intraprende pratiche formali di prāṇāyāma, o ‘controllo del respiro’, non può fare a meno di un buon lavoro preliminare incentrato sulle posture. Ciò vale ancor di più oggi: rispetto agli yogin antichi, che avevano il corpo di chi vive immerso nella natura, trascorriamo gran parte del tempo sovrastimolati di fronte a uno schermo, alla guida di un’automobile o sdraiati su un divano. È ovvio che il corpo, il respiro, la vitalità e l’attenzione ne risentano drammaticamente: è qui che entra in gioco tutto il valore e la necessità di una buona pratica ‘posturale’. Gli yogin del passato ne avevano forse meno bisogno di noi – la loro pratica degli āsana era molto più semplice ed essenziale della nostra e aveva spesso scopi differenti – e potevano permettersi di intraprendere il prāṇāyāma partendo già da una condizione di relativo agio respiratorio.
Nella tradizione di Krishnamacharya – in modo particolare nella fase più tarda e meno nota del suo insegnamento – il lavoro respiratorio durante gli āsana assume un ruolo centrale: vengono suggeriti ritmi respiratori da mantenere durante le posture (sia nella fase dinamica sia in quella statica), conteggi, osservazione dei luoghi (deśa) del respiro e ovviamente la tecnica ujjāyī. Oltre a un marcato effetto concentrativo, questo lavoro costituisce la necessaria preparazione per l’esecuzione di tecniche più ‘formali’ di prāṇāyāma eseguite nella postura seduta. Ciò a sua volta dovrebbe condurre alle membra ‘interne’ dello yoga, ovvero a pratyāhāra, dhāraṇā e dhyāna. In altre parole, la pratica degli āsana costituisce un primo lavoro di rieducazione e affinamento del respiro (oltre a una forma niente affatto trascurabile di rieducazione dell’attenzione e della focalizzazione); a quel punto si è pronti per le tecniche formali di prāṇāyāma (che implicano conteggi, ritmi respiratori, bandha, eccetera) e che richiedono un’attenzione stabile e sostenuta e una certa disponibilità all’introversione dell’attenzione, qualità che già vengono coltivate negli āsana. Tutto questo lavoro, idealmente, può e dovrebbe condurre a una mente calma, lucida e focalizzata (nel gergo yogico si direbbe ‘sattvica’), ovvero alla porta della «meditazione», qualunque sia il significato che attribuiamo a questa parola.
Virginia: Lo yoga permette di comprendere non solo la relazione tra corpo e respiro, ma anche quella, ancora più sottile, tra respiro e mente. Quando il respiro è “pacificato” anche la mente è in pace. Attraverso la pratica possiamo fare esperienza di una pausa respiratoria non forzata che diventa luogo di silenzio e presenza. Puoi parlarci meglio di questa relazione?
Marco: L’idea di una relazione profonda tra mente e respiro è un’intuizione arcaica della civiltà indiana, attestata già nella letteratura vedica e che riappare continuamente nei testi yogici. Dalle Upaniṣad fino ai testi buddhisti, dai Tantra fino alle opere dello haṭhayoga, sono innumerevoli i riferimenti a una corrispondenza a doppio senso tra il respiro (prāṇa; vāta; vāyu; pavana) e la mente (manas; citta). Un respiro caotico, irregolare, ‘patologico’, è lo specchio di una mente distratta e sofferente, mentre un respiro tranquillo e pacificato è il segno tangibile di una mente calma, lucida e concentrata. Di fatto, in molti sistemi antichi, il culmine di tutto il prāṇāyāma è definito esplicitamente come una completa cessazione del respiro, chiamata caturtha, il ‘quarto’, da Patañjali o kevala kumbhaka, ‘ritenzione svincolata’ nei testi dell’haṭhayoga. A questa cessazione respiratoria si accompagna immancabilmente uno stato di cessazione cognitiva, che corrisponde a livelli elevatissimi di samādhi.
Per molti praticanti di oggi, che nel migliore dei casi riescono a dedicare una o due ore al giorno alla pratica, si tratta di mete che possono apparire bizzarre e irrealizzabili o niente affatto desiderabili. Credo sia importante essere realisti: il lavoro respiratorio che si propone oggi nello yoga che tutti noi pratichiamo dovrebbe mirare a un raffinamento del respiro, a una condizione di armonia respiratoria che, come sa chiunque ne abbia avuto esperienza, apporta innumerevoli benefici. Non bisogna essere yogin in qualche remota grotta himalayana per toccare con mano quello stato in cui il respiro fluisce tranquillo, quasi impercettibile, e la mente riposa attenta su di esso; oppure quella condizione in cui il corpo si muove fluidamente in āsana dinamici scanditi dal ritmo lento delle fasi respiratorie; o ancora quei piccoli momenti di completo silenzio e abbandono che avvengono soprattutto nella pausa a polmoni vuoti. Krishnamacharya parlava, non a caso, di ‘convergenza’ (saṃgati), ovvero del raccogliersi e armonizzarsi del corpo (kāya), del respiro (prāṇa), degli organi di senso (indriya) e della facoltà di attenzione (manas): il risultato di questa sinergia è l’esperienza (anubhāva), un esserci …il famoso ‘stare nel presente’ di cui oggi tutti parlano e che tutti ricercano. In altre parole, far muovere il corpo in modo intelligente attraverso gli āsana, farlo facendosi guidare dal respiro (che a volte può essere ritmato e controllato con gentilezza e altre lasciato libero) e prestare un’attenzione sistematica a tutto ciò che accade mentre lo facciamo può portare a una pacificazione del corpo, del respiro e della mente: un risultato straordinario alla portata di noi persone ‘ordinarie’.
Virginia: Con un’immagine molto efficace spesso il respiro naturale è visto come un cervo in una radura, osservarlo ci chiede di farci discreti e silenziosi, di procedere in punta di piedi per non disturbarlo e farlo fuggire via. Il respiro è, allora, qualcosa da conoscere e da accompagnare dopo averci fatto amicizia, più che un animale selvatico da domare. C’è un punto di incontro tra contemplazione e controllo? Come possiamo esercitare insieme ascolto e tecnica?
Marco: Come abbiamo visto, le fonti antiche sono pressoché unanimi nello stabilire una relazione a doppio senso tra respiro e mente. Ciò che varia in modo notevole nelle differenti tradizioni sono le tecniche specifiche grazie a cui intervenire su questa relazione e sfruttarla per determinati fini. Alcuni approcci suggeriscono di intervenire attivamente sul respiro, addirittura in modo ‘forte’, mentre altri suggeriscono l’esatto opposto, ovvero essere semplici spettatori del respiro lasciandolo libero di assestarsi da sé senza intervenire in alcun modo. Esistono numerosi autori o tradizioni, sia antichi sia moderni, che mettono in guardia dalla pratica del prāṇāyāma e da ogni manipolazione del respiro, mentre altri vedono nel controllo del respiro la via privilegiata al samādhi.
Di nuovo, proviamo a scendere dall’eremo himalayano e torniamo al nostro tappetino. Secondo il mio modesto punto di vista, una pratica matura di yoga implica l’acquisizione della capacità di alternare in modo attento e intelligente momenti di controllo attivo delle fasi respiratorie – espirazione, pausa a vuoto, inspirazione e pausa a pieno – a momenti in cui il respiro viene lasciato libero e osservato passivamente. Queste modalità necessitano ambedue di un addestramento sistematico e sono ciascuna a suo modo un grande campo di sperimentazione e conoscenza di sé. In entrambi i casi si tratta di un lavoro di consapevolezza, che richiede concentrazione e che produce ulteriore concentrazione. In entrambi i casi si tratta di un affinamento dell’attenzione che finisce per ripercuotersi su ogni aspetto della persona.
Virginia: Negli Yogasūtra, Patañjali parla del prāṇāyāma, soffermandosi sull’importanza dell’allungamento e della distensione delle fasi respiratorie, qual è il suo punto di vista? Quanto è diverso dall’approccio dello yoga moderno?
Marco: Rispondere a questa domanda richiederebbe molto tempo e renderebbe necessario aprire numerose parentesi. In breve, possiamo affermare che Patañjali, in linea con una lunga tradizione a lui precedente, presenta una visione ‘cessativa’ del prāṇāyāma: lo capiamo dal primo aforisma che dedica a questo tema (2.49), nel quale afferma senza mezzi termini che “il controllo del respiro consiste nell’interruzione del corso dell’espirazione e dell’inspirazione” (śvāsapraśvāsayoḥ gativicchedaḥ pṛāṇāyāmaḥ). Tale visione rispecchia un approccio decisamente ascetico, che pone come meta suprema per lo yogin l’ottenimento di uno stato di stasi completa e di ‘morte cognitiva’: la cessazione del respiro è parallela alla cessazione delle attività mentali (cittavṛtti-nirodha) menzionata nel celebre aforisma 1.2. Si badi bene che la cessazione delle attività mentali consiste nell’arresto di cinque forme di attività (descritte nei sūtra 1.5-11), funzioni che abbracciano di fatto tutte le normali attività cognitive. Alcune interpretazioni ‘liberali’ di questi sūtra, che tendono a mettere in luce un generico appello a «stare nel presente senza farsi risucchiare dal pensiero e dalle fantasie», finiscono per non cogliere la radicalità e la difficoltà di questa impresa. L’interruzione della respirazione è dunque parte integrante di questa cessazione.
Ancora una volta, proviamo a scendere dall’eremo. Cosa dovremmo fare noi oggi? Aspirare a uno stato di morte respiratoria e cognitiva è realistico? Rientra tra gli interessi dei praticanti di oggi? Nei secoli, soprattutto nell’ambito dello haṭhayoga, sono state messe a punto numerose tecniche che hanno un’importante funzione preliminare, ovvero che producono una necessaria ‘purificazione dei canali’ (nāḍī-śodhana). In altre parole, prima di puntare alla vetta, ovvero alla cessazione del respiro, è necessario percorrere un lungo cammino preparatorio, di progressivo avvicinamento, che comporta una purificazione graduale e un addestramento del respiro, con effetti importanti sulla salute del corpo e della mente. Maestri moderni come Krishnamacharya e tanti altri hanno dato grande enfasi a questo aspetto di purificazione e armonizzazione, in linea con un approccio salutistico che già compare nei testi dello haṭhayoga e che si sviluppa esponenzialmente nello yoga moderno. Personalmente non la considero una deviazione dagli ideali più antichi, ma piuttosto un’evoluzione necessaria. Chiunque abbia sperimentato in maniera continuativa un certo tipo di lavoro respiratorio sa quanto ciò possa migliorare la vitalità, la lucidità e la capacità di concentrazione. Tutto ciò va certamente in direzione di quell’antico ideale che vede in una mente chiara e luminosa la condizione imprescindibile per la libertà.
Virginia: Nel tuo seminario si alterneranno momenti di approfondimento teorico con momenti esperienziali in cui ci permetterai di sperimentare alcune tecniche di pranayama che hai studiato nella scuola di Desikachar. Vuoi anticiparci qualcosa?
Marco: Le tecniche di prāṇāyāma insegnate nell’ambito del Viniyoga di Krishnamacharya e Desikachar non sono mai disgiunte dalla pratica degli āsana. Ciascuna tecnica formale (eseguita in posizione seduta) è preceduta da una sessione più o meno lunga di pratica posturale, che ha lo scopo di preparare al meglio l’esecuzione della tecnica stessa. Nel seminario, parallele a una serie di informazioni teoriche, verranno proposte tre tecniche: viloma-ujjāyī, pratiloma-ujjāyī e anuloma ujjāyī. Si tratta di prāṇāyāma che abbinano l’esecuzione del respiro ujjāyī (che già viene raccomandato durante gli āsana) al respiro a narici alternate, utilizzando ciascuna una tipologia specifica di ritmi respiratori. Ogni tecnica si abbina a sua volta a una determinata ora della giornata (mattina, mezzogiorno, pomeriggio/sera). Questa modalità di pratica del prāṇāyāma rispecchia la fase più tarda e matura dell’insegnamento di Krishnamacharya, incentrato sull’idea di vinyāsa-krama, inteso come applicazione graduale e progressiva delle tecniche dello yoga.