Contaminazioni tra yoga e buddhismo. Dialogo con Marco Passavanti e Filippo Lunardo

Al momento stai visualizzando Contaminazioni tra yoga e buddhismo.  Dialogo con Marco Passavanti e Filippo Lunardo
  • Categoria dell'articolo:Blog "Al Centro" / Yoga
  • Tempo di lettura:13 minuti di lettura

Intervista a cura di Virginia Farina per la Scuola di Yoga Centro Natura.

Questo è un estratto delle video-interviste (pubblicate in versione più ampia sui nostri canali FB, IG e YouTube) ai relatori del ciclo di seminari su ‘Contaminazioni tra yoga e buddhismo dalle origini a oggi. Due tradizioni a confronto’ in programma domenica 22 gennaio, 26 febbraio e 26 marzo 2023.

Per ulteriori informazioni e iscrizioni

 

Yoga e Buddhismo: quale relazione?

Virginia: Fino a poco tempo fa era opinione diffusa che queste due tradizioni si fossero sviluppate in tempi e in ambiti piuttosto specifici. Gli studi più recenti ci mostrano, invece, che ci sono molti più elementi comuni, molti più punti di contatto di quanto immaginavamo.

 

Marco: La questione è molto complessa e, tra l’altro, neanche tra i maggiori studiosi contemporanei c’è sempre accordo su alcune idee. La visione maggiormente accreditata è quella secondo cui sia lo yoga che il buddhismo sono nati da una cultura comune, una cultura ascetica che gli studiosi localizzano nella valle del Gange intorno al settimo sesto secolo avanti Cristo, nel periodo in cui vengono composte le Upanishad e nascono il Buddha, Mahavira e altri importanti maestri. Possiamo far risalire all’epoca un importante movimento ascetico, quello cosiddetto degli sramana, composto da asceti itineranti, tra cui lo stesso Buddha, che sperimentano particolari tecniche psico-corporee non ancora definite come yoga. Il termine yoga verrà introdotto successivamente nella Katha Upanishad, in un brano riferibile al terzo secolo avanti Cristo.

Un legame con la cultura sramana è, quindi, già evidente nella biografia del Buddha, in ciò che sappiamo della sua vita. Il Buddha inizia una ricerca: prima di diventare il “Risvegliato” anche lui è uno sramana, un asceta che fa un suo percorso spirituale ed entra in contatto con diversi maestri. Di alcuni di questi maestri sappiamo anche i nomi, come Alara Kalama e Uddaka Ramaputta. Egli riceve diversi insegnamenti che possiamo considerare delle forme di proto-yoga non sistematizzate. Pur non chiamandosi yoga queste forme di meditazione profonda concentrativa hanno molto in comune con forme yogiche che conosceremo nei secoli successivi.

Gli Yoga Sutra, considerati il testo fondativo dello yoga, arrivano in un’epoca molto successiva. Patanjali oggi viene datato dalla maggior parte degli studiosi intorno al IV-V sec d.C., quindi circa sette otto secoli dopo il Buddha. Sette otto secoli non sono pochi. Ai tempi di Patanjali il buddhismo è forse all’apice del suo sviluppo filosofico e dottrinale, e da una lettura attenta degli Yoga Sutra si evince chiaramente che Patanjali ne è stato fortemente influenzato. Nel testo sembra in più punti dialogare esplicitamente con esponenti buddhisti, nell’intento di integrare nel suo sistema (che è un sistema tipicamente brahmanico legato alla filosofia del Samkhya) molte delle pratiche che provengono appunto da questi ambienti. Probabilmente mentre compone i suoi aforismi Patanjali ha sottomano dei manuali di meditazione buddhista, ed è ad essi che fa riferimento in alcuni passaggi.

Oggi questo rapporto tra yoga e buddhismo, benché sia qualcosa ormai assodato per gli studiosi, fatica a essere patrimonio comune tra i praticanti. È quasi un tabù parlarne, ad esempio, in India. Se andiamo a fare un corso di formazione per insegnanti di yoga in India, come ce ne sono tanti, può accadere che gli insegnanti di questi corsi risentano un po’ di una ideologia nazionalista fondamentalista hindu, e tendano a dare una visione dello yoga come un fenomeno esclusivamente hindu. Diciamo che la visione che ci viene passata in questi contesti è una sorta di catechismo che tende a considerare lo yoga un fenomeno legato esclusivamente alla rivelazione vedica, mentre le cose non sono affatto così lineari per gli studiosi. C’è sicuramente un filone importante negli Yoga Sutra legato alla cultura vedica, perché Patanjali era un brahmano. Ma nella storia dello yoga c’è molto di più, c’è il contributo di altre tradizioni, come il buddhismo, ma anche il jainismo. Gli Yoga Sutra sono, in questo senso, un testo sincretico. E mettere in luce questo sincretismo è un valore importante per capire effettivamente quali fossero le pratiche che propone Patanjali e anche per dare un senso ad alcuni sutra che appaiono, a volte, estremamente criptici. Nel tempo purtroppo la memoria di queste relazioni e influenze è andata perdendosi, questo perché con la scomparsa del buddhismo dall’India i commentatori non avevano più un contatto diretto con le teorie buddhiste e non sono in grado di esplicitare i diversi riferimenti.

Per concludere rispetto al tema del rapporto tra yoga e buddhismo possiamo dire che ci sono due approcci da evitare, purtroppo piuttosto frequenti. Il primo è l’approccio fondamentalista hindu, che considera il buddhismo una costola dell’Induismo e quindi nega il contributo fondamentale del buddhismo allo yoga. Il secondo, invece, possiamo chiamarlo l’approccio fondamentalista buddhista, che considera Patanjali sostanzialmente un buddhista, dando così al buddhismo un primato su tutti i fronti. Sono convinto che entrambe queste visioni siano da evitare e mi piace sottolineare, al contrario, come Patanjali stia, in realtà, cercando di realizzare un dialogo tra varie tradizioni sapienziali. Il suo è un lavoro sincretico, di dialogo, capace di mettere in relazione quei diversi fenomeni che vengono chiamati yoga, cercando di sistematizzarli. Patanjali è fondamentalmente più un apostolo del dialogo che della contrapposizione, e per questo il suo contributo mi sembra veramente fondamentale.

 

Amritasiddhi: all’origine dell’hatha yoga

Virginia: Vorremmo approfondire con te un testo fondamentale dello yoga che pure è a tutt’oggi da noi poco conosciuto. Un testo che ci permette di illuminare un’altra connessione, ovvero quella tra l’origine dell’hatha yoga e la diffusione del buddhismo Vajrayana.

 

Marco: L’Amritasiddhi è un testo datato al XI secolo dopo Cristo, quindi in piena epoca medievale. Ne conosciamo principalmente la versione in sanscrito, ma ci sono anche delle traduzioni parziali in tibetano. Questo testo viene redatto in un ambiente legato al buddhismo Vajrayana, quindi al buddhismo esoterico, tantrico. La sua caratteristica fondamentale, quella per cui esso è estremamente importante, è che si tratta del primo testo a noi noto in assoluto a descrivere tutta una serie di pratiche che nei secoli successivi saranno chiamate hatha yoga. Tutti noi oggi in un corso di yoga eseguiamo i bandha, mulabandha, jalandharabandha, uddyanabandha… Ecco il primo testo in assoluto che noi conosciamo che descrive queste pratiche è l’Amritasiddhi. Oggi esso è un po’ una novità nel campo degli studi sullo yoga perché è stato editato e tradotto in inglese lo scorso anno da James Mallinson, indologo britannico e una delle più autorevoli voci accademiche contemporanee, e da Péter-Dániel Szántó, grande studioso anche lui, sanscritista e tibetologo. Insieme hanno fatto un lavoro veramente notevole su questo testo che, pur essendo abbastanza breve, è una vera miniera di informazioni. Io non scenderò nell’analisi tanto nel dettaglio, perché è un’opera molto complessa. Avere però anche soltanto una panoramica del suo contenuto ci aiuta a capire che quel fenomeno complesso che chiamiamo hatha yoga è stato ampiamente rimaneggiato in epoca moderna, e che affonda le sue radici in più tradizioni. L’hatha yoga è il risultato dell’incontro e del dialogo tra più prospettive: shaiva e buddhiste, ma anche ascetiche con origini molto più antiche, che poi confluiscono in quello che a un certo punto diventerà il discorso yogico prevalente in India a partire più o meno dal XV secolo, quando verrà composta l’Hatha Pradipika. L’Amritasiddhi è un ottimo punto di partenza, quindi, per parlare di molte concezioni tipiche dell’hatha yoga, concezioni che ritroviamo per la prima volta descritte in un testo buddhista, cioè là dove quasi nessuno si sarebbe aspettato di trovarle. Ancora una volta dobbiamo, quindi, sottolineare la stretta vicinanza e il continuo dialogo tra gruppi shaiva e gruppi buddhisti, per cui è davvero impossibile tracciare una distinzione netta tra essi.

 

Buddhismo e modern yoga

Virginia: Veniamo allo yoga così come lo conosciamo. Sembra che oggi le connessioni, ma anche le contaminazioni, tra yoga e buddhismo siano tantissime, ma quanto sono realmente giustificate e quanto frutto di fraintendimento o di “facilonerie”?

 

Marco: Dobbiamo innanzitutto riconoscere che quello che chiamiamo yoga moderno, o meglio yoga moderno transnazionale, è veramente una rivoluzione nella storia dello yoga. Lo yoga da disciplina “esoterica”, riservata a piccoli gruppi per la maggior parte di asceti rinuncianti, si è trovato a diventare una pratica di massa diffusa a livello globale. Ha, quindi, subito delle trasformazioni radicali, come gran parte della cultura indiana che, negli ultimi duecento anni, cioè a partire dall’epoca coloniale, è stata profondamente influenzata dalla relazione con quella occidentale. Lo yoga, quindi, ma anche il buddhismo sono diventati dei “prodotti di esportazione”. Hanno avuto nel tempo una diffusione enorme e godono adesso di un successo globale, tanto da essere parte della vita di milioni di persone. Nell’ultima parte dell’intervento, nella terza lezione, mi concentrerò quindi in modo particolare su alcuni concetti che, pur essendo tipicamente buddhisti, vengono oggi in qualche modo masticati anche nel mondo dello yoga. Uno di questi concetti cardine, ad esempio, è quello della presenza mentale, mindfulness, o consapevolezza. Tutti noi facciamo riferimento a questi termini quando diciamo che fare yoga significa stare nel presente. Questo stare nel presente è però un’eco di discorsi tipicamente buddhisti. Non troviamo, infatti, molti riferimenti allo stare nel presente nella letteratura yogica di ascendenza brahmanica, mentre questi termini sono diffusissimi nella letteratura buddhista. Possiamo dire, quindi, che concetti buddhisti e pratica yogica si sono mescolati, fusi, oggi fino a diventare un discorso comune, veramente comune. L’idea stessa della pratica di asana come meditazione in movimento è una rivoluzione per quanto riguarda lo yoga. Nell’hatha yoga tradizionale premoderno, la pratica di asana non viene mai presentata come una meditazione in movimento: questo aspetto secondo me è molto più legato a discorsi moderni in cui il buddhismo dà un contributo veramente fondamentale.

 

Lo yoga e il màndala nel buddhismo tantrico

Virginia: Filippo, nel tuo incontro ci parlerai della relazione tra yoga e buddhismo tantrico, soffermandoti in modo particolare sul màndala, ovvero sulla rappresentazione simbolica delle qualità della mente e del suo pieno potenziale che diventa strumento di pratica e di trasformazione individuale. Quali possono essere gli spunti che questo approccio può donarci come praticanti di yoga che non hanno una conoscenza specifica della tradizione buddhista?

 

Filippo: Nell’esperienza tantrica tibetana di ascendenza indiana, che avrete modo di approfondire con Marco, prima di arrivare a meditare sui màndala, si dovevano ottenere delle iniziazioni specifiche, che introducevano e autorizzavano, meditazioni complesse. Tali meditazioni avevano, e continuano ad avere per chi pratica ciò nei nostri tempi, i màndala come specifici supporti e strumenti per la visualizzazione. Il mandala rappresenta sia la dimora e il mondo di una divinità, ovvero la nostra psiche trasformata, che la relazione tra i vari elementi del corpo sottile, tra cui i chakra. Queste meditazioni servivano quindi a mutare la psiche e a predisporre corpo e mente per tutta una serie di prassi psico-fisiche che avrebbero portato al risveglio vero e proprio. Tra queste prassi troviamo delle forme di yoga che possono essere equiparate all’hatha yoga. Oggi vengono conosciute con il nome di yantra yoga. Il termine tibetano per definirlo significa “ruote dell’emanazione”, trulkhor (sprul ‘khor), spesso definite ruote magiche.

Ad ogni ruota (chakra) è connesso uno yantra che serve a innescare e a pacificare tutta una serie di “energie” o forze vitali nel corpo, risvegliando determinate esperienze. Solitamente il modo migliore per entrare in profondità in questa pratica meditativa è attraverso una tecnica di calma concentrativa sul respiro. Per meditare su un impianto mandalico è utile impiegare proprio lo yoga, perché lo yoga (questo è anche il concetto inerente alla sua radice yuj, unione) assorbe tutta una serie di frammentazioni psicofisiche legate all’attività grossolana del mondo dei sensi portando la mente a un suo fulcro, a un suo centro, da cui potrà poi risvegliare le esperienze che sono già presenti, ma in potenziale. Quindi la connessione con la tradizione yogica in realtà è molto importante perché il mondo buddhista, soprattutto oggi, impiega lo yoga come uno strumento fondamentale. Ma torniamo ai màndala. Come usarli? Per esempio, sapendo che i cinque colori del màndala (il bianco, il blu, il giallo, il rosso e il verde) rappresentano degli stati emotivi di afflizione come gli elementi che compongono le parti del corpo (la terra, simboleggiata dal giallo, è per esempio l’elemento solido, le ossa, i muscoli e così via, e al tempo stesso rappresenta l’orgoglio, l’assenza di solidità in se stessi, l’insicurezza e così via), si possono visualizzare questi colori intorno a noi, richiamare queste condizioni afflittive disponendole intorno a noi, per poi dissolverle in elementi ben precisi che nei màndala servono proprio per trasformare questi stati emotivi e lasciare la mente in uno stato di puro assorbimento e di pura pacificazione. Quindi, terminata la propria prassi di yoga un praticante può raccogliersi in contemplazione, richiamando lo stato che più lo affligge e dissolvendolo in questo colore sapendo che questo colore è un aspetto pacificato della mente che lavora per esempio sulla trasformazione dell’orgoglio, dell’insicurezza, della paura, ecc. Il màndala, quindi, non è qualcosa di sacro in sé. È uno strumento che diventa sacro nel momento in cui il praticante riesce a lavorare su di sé. Diventa sacro, perché è uno strumento capace di trasformare la vita di una persona.

 

Ciclo di seminari su ‘Contaminazioni tra yoga e buddhismo dalle origini a oggi. Due tradizioni a confronto’.

Condividi