Niyama la nostra relazione con noi stessi.
Le insegnanti della Scuola di Yoga ci offrono un nuovo approfondimento.
Dopo Yama, la relazione che portava l’attenzione al primo dei due elementi etici anticipati in Yoga e etica ecco il nuovo contributo che ci porta a riflettere sul rapporto con noi stessi.
Conoscere se stessi è la più grande pratica d’amore, afferma il maestro zen Thich Nath Hanh, esprimendo qualcosa che sembra di una semplicità disarmante e che pure, a ben rifletterci, non lo è.
Siamo abituati da tempo a dirci che dobbiamo amarci, eppure sembra che questo non ci basti. In alcune situazioni della vita ci scopriamo a volte estranei a noi stessi, come se di noi conoscessimo solo un’immagine riflessa. Ma cosa significa davvero conoscerci? In che modo ci conosciamo? Perché questa conoscenza può essere la base di una pratica d’amore tanto grande?
Niyama la nostra relazione, parte dal corpo
È forse un’esperienza comune a tutti i praticanti di Yoga quella per cui a un certo punto del percorso ci si inizia a sentire: prima le catene muscolari stirate e tonificate, poi il respiro e infine qualcosa di ciò che più all’interno ci dice di noi, le emozioni, i pensieri, lo spazio tra di essi. Man mano che procediamo lo Yoga si rivela così essere un cammino ineguagliabile nel condurci alla scoperta di noi, nel creare le condizioni per una nuova familiarità di noi con noi.
Negli Yogasutra Patanjali ci offre alcuni spunti importanti per illuminare questa nostra relazione con noi stessi e lo fa dopo averci portato a riflettere sulla nostra relazione con l’esterno, con gli altri (Yama) e giusto prima di introdurci ad Asana.
Patanjali definisce dunque Niyama quei principi che orientano il nostro sguardo su di noi. Come un invito, un farci più vicini, più familiari a ciò che davvero siamo.
Sauca, Sàantosa e Tapas
Il primo di questi principi è Sauca, spesso tradotto come pulizia, che nel suo significato originario sembra rimandare a uno scoprirci in certe condizioni più autentici, meno condizionati dalle maschere e dai ruoli che spesso impersoniamo.
Patanjali riconosce poi una contentezza (Sàntosa) e un’intensità (Tapas) che sembrano animarci quando davvero siamo presenti a noi stessi, al movimento vitale che si fa attraverso di noi. Poi ancora più precisamente ed esplicitamente il suo testo ci invita a conoscerci in modo diretto, senza mediazioni intellettuali, dall’interno, parlandoci di Svadhyaya, e infine ci lancia una sfida attraverso l’ultimo principio: Isvara-pranidhana.
Sono tante le traduzioni di questo verso, alcune più legate a contesti religiosi che identificano Isvara nel Signore, altre più aperte rimandano al suo significato letterale: ciò che tutto permea.
Assenza di separazione
L’invito di Patanjali sembra essere questo: abbandonarsi, riconoscersi parte del tutto, e riscoprire in questo un senso più ampio del sacro. Ritornando a noi possiamo dunque scoprire che non c’è in fondo separazione tra noi e gli altri, tra noi e la terra, l’acqua, l’aria, la vita.
Il sentimento d’amore che nasce da questo riconoscimento è un sentimento nuovo, che ci rende capace di amarci e amare sentendo che c’è un nostro bene comune, e che ce ne possiamo prendere cura.
E in questo, credo, l’etica che fiorisce dalla pratica dello Yoga è un’etica davvero straordinaria, perché ha una misura profondamente umana e al tempo stesso un respiro che abbraccia l’intero universo.
Testo curato da Virgina Farina, per le insegnanti Scuola di Yoga Centro Natura
Nyama la nostra relazione con noi stessi – Yoga a Bologna